Quando gli storici scrivono della recente storia mondiale si trovano inevitabilmente a riflettere su due tendenze e cioè il progresso della globalizzazione e la diffusione della democrazia. Tra queste due la globalizzazione è quella che ha generato più contraddizioni perché sortisce effetti sia favorevoli sia sfavorevoli. Mentre la democrazia è andata progressivamente sempre rinsaldandosi la globalizzazione è molto più sfaccettata. Prendiamo ad esempio la sfera della cultura e dell’identità. Questo aspetto è molto problematico e crea più divisioni di altri poiché non tocca solo gli economisti, i funzionari del governo e gli attivisti politici, ma anche le persone normali. La globalizzazione ha infatti moltiplicato come non mai i contatti tra gli individui e i loro valori, idee e stili di vita. Le persone viaggiano più spesso e vanno più lontano. La televisione raggiunge le famiglie che vivono in zone che prima erano considerate inaccessibili anche dai vicini più prossimi. I prodotti della globalizzazione vengono goduti in ogni angolo del mondo. Basti pensare alla musica brasiliana, ai film americani, alla cucina cinese, alle notizie da tutto il mondo. Per molte persone questa nuova diversità è eccitante e addirittura proficua. Per altre è causa di inquietudine e di impoverimento. Queste ultime temono che il loro Paese si frammenti e i loro valori vadano persi per effetto del numero crescente di immigrati che portano usi nuovi, del commercio internazionale e dei moderni mezzi di comunicazione che invadono ogni angolo del mondo sostituendosi alla cultura locale. Altri presagiscono un angosciante scenario di omogeneizzazione culturale in cui le diverse culture nazionali cedono il posto a un mondo dominato sempre più da valori e simboli occidentali. Ovunque ci si chiede con preoccupazione se la crescita economica e il progresso sociale comportino necessariamente l’adozione dei valori occidentali dominanti e se esista un solo modello di politica economica, istituzioni politiche e valori sociali. Questi timori giungono però al colmo quando si tratta di politiche sugli investimenti, sul commercio e sulla migrazione. Nascono così movimenti contro la globalizzazione che contestano il fatto che i beni culturali nel commercio globale e negli accordi sugli investimenti siano trattati alla stregua di un qualsiasi altro bene. Alcuni gruppi in Europa occidentale si oppongono addirittura all’ingresso di lavoratori stranieri e delle relative famiglie ritenendo che gli immigrati minaccino la cultura nazionale. Ciò che accomuna questi contestatori è la paura di perdere la propria identità culturale e ciascuna di queste problematiche ha innescato una diffusa mobilitazione politica. Le posizioni estreme in questi dibattiti provocano spesso risposte regressive di carattere nazionalistico e xenofobo come per esempio quella di chiudere il Paese a tutte le influenze che provengono dall’esterno e conservare la propria tradizione. Tale difesa della cultura nazionale si realizza a discapito dello sviluppo e della possibilità di scelta per le persone. Simili posizioni estreme non rappresentano la giusta strategia per proteggere le culture e le identità locali. Non si deve compiere una scelta netta tra la protezione delle identità locali e l'adozione di politiche aperte ai flussi globali dei migranti, ai film, ai capitali stranieri e alla conoscenza. La sfida per tutti i Paesi del mondo è delineare delle politiche che promuovano decisioni mirate ad ampliare le scelte piuttosto che a limitarle, sostenendo e difendendo le identità nazionali e mantenendo nel contempo i confini aperti. L’impatto della globalizzazione sulla libertà culturale merita perciò un’attenzione speciale. Generalmente ci si sofferma sulle cause dell’esclusione economica come le barriere commerciali che mantengono i mercati chiusi alle esportazioni dei Paesi poveri e dell’esclusione politica come la debole partecipazione dei Paesi in via di sviluppo ai negoziati commerciali. Tuttavia la sola eliminazione di queste barriere non basterà a cancellare l’esclusione culturale. Per raggiungere questo obiettivo occorrono approcci innovativi basati su politiche multiculturali. I flussi globali di merci, idee, persone e capitali possono apparire sotto molti aspetti come minacce alla cultura nazionale. Possono portare all’abbandono di valori e pratiche tradizionali e allo smantellamento della base economica su cui poggia la sopravvivenza delle culture indigene. Quando tali flussi globali provocano l’esclusione culturale servono politiche multiculturali che permettano di gestire il commercio, l’immigrazione e gli investimenti riconoscendo le differenze e le identità culturali. Lo scopo delle politiche multiculturali non è quello di conservare la tradizione, ma di proteggere la libertà culturale, ampliare le scelte degli individui rispetto al modo di vivere, di identificarsi e di non penalizzarli per tali scelte. Preservare la tradizione può contribuire a mantenere aperte varie opzioni, ma le persone non devono essere costrette tra le rigide pareti di una cultura. Purtroppo i dibattiti odierni sulla globalizzazione e la perdita di identità culturale sono spesso affrontati in termini di promozione della sovranità nazionale, conservazione dell’antico patrimonio delle popolazioni indigene e salvaguardia della cultura nazionale di fronte ai crescenti afflussi dall’estero di persone, film, musica e merci di altro tipo. Tuttavia le identità culturali sono eterogenee e si evolvono. Le identità culturali sono processi dinamici in cui esistono incongruenze e conflitti interni apportatori di cambiamento. Una strategia che miri a includere il multiculturalismo nella globalizzazione dovrebbe basarsi su quattro principi. Il primo principio è quello per cui difendere la tradizione può rallentare lo sviluppo umano. Tale principio sostiene che non si deve confondere la tradizione con la libertà di scelta. Discutere di diversità culturale insistendo sul fatto che essa è l’eredità di diversi gruppi di persone significa chiaramente ragionare senza basarsi sulla libertà culturale. Per di più la tradizione può agire contro la libertà culturale. Il conservatorismo culturale può scoraggiare od ostacolare le persone dall’adottare uno stile di vita diverso o addirittura dall’abbracciare lo stile di vita che altri individui con un diverso bagaglio culturale seguono normalmente nella società in questione. Vi è molto di apprezzabile nei valori e nelle pratiche tradizionali e molti aspetti di esse collimano con i valori universali dei diritti umani, ma molti altri sono anche in contrasto con l’etica universale. Pensiamo per esempio alle leggi sulla successione che tendono a svantaggiare le donne o alle procedure decisionali non partecipative e non democratiche. Adottare la posizione estrema di chi vuole mantenere la tradizione a tutti i costi può frenare lo sviluppo umano. Alcune persone indigene temono che le loro antiche pratiche culturali siano minacciate dall’afflusso di investimenti esteri nelle industrie estrattive o che divulgare la conoscenza tradizionale porti necessariamente a un suo abuso. Altre hanno reagito alle violazioni della loro identità culturale chiudendo la porta a qualsiasi idea nuova e a qualsiasi cambiamento nel tentativo di preservare la tradizione a ogni costo. Questo tipo di reazioni limita per gli individui indigeni non soltanto le scelte culturali, ma anche quelle sociali ed economiche. In maniera analoga spesso i gruppi contro gli immigrati difendono le identità nazionali in nome della tradizione. Questo atteggiamento restringe le loro possibilità di scelta ed esclude i Paesi dai vantaggi sociali ed economici dell’immigrazione che è in grado di arricchire un’economia di nuove competenze e lavoratori. Inoltre difendere le industrie culturali nazionali con il protezionismo riduce le scelte a disposizione dei consumatori. In nessuna società gli stili di vita o i valori sono statici. Gli antropologi hanno rinunciato al tentativo di attualizzare le culture e ora ritengono importante il modo in cui le culture mutano sotto il continuo influsso di contraddizioni e conflitti interni. Il secondo principio è quello per cui rispettare la differenza e la diversità è essenziale. Tale principio afferma che la diversità non è fine a se stessa, ma favorisce la libertà culturale, arricchisce la vita degli individui ed è una conseguenza delle libertà che le persone hanno e delle scelte che esse operano. Comporta altresì l’opportunità di valutare opzioni differenti di fronte alle scelte fatte. Se scomparissero le culture locali e i Paesi diventassero omogenei, si ridurrebbe la possibilità di scelta. Buona parte del timore di perdere l’identità e la cultura nazionali deriva infatti dalla convinzione che la diversità culturale porti inevitabilmente al conflitto o a un mancato sviluppo, invece non è la diversità che porta inevitabilmente al conflitto. Sono la soppressione dell’identità culturale e l’esclusione sociale, politica ed economica motivata dalla cultura che possono innescare violenza e tensioni. Le persone possono temere la diversità e le sue conseguenze, ma è l’opposizione alla diversità che può dividere le società e alimentare le tensioni sociali. Il terzo principio è quello per cui in un mondo del tutto interdipendente la diversità prospera quando le persone hanno identità molteplici e complementari e appartengono non solo a una comunità locale e a un Paese, ma anche all’umanità in genere. Tale principio asserisce che la globalizzazione è in grado di estendere le libertà culturali solamente se tutte le persone sviluppano identità molteplici e complementari come cittadini del mondo, cittadini di uno Stato e membri di un gruppo culturale. Proprio come uno Stato culturalmente vario può costruire l’unità a partire da identità molteplici e complementari, un mondo culturalmente vario deve fare altrettanto. Con l’avanzare della globalizzazione questo non significa soltanto riconoscere le identità locali e nazionali, ma anche rafforzare l’impegno a essere cittadini del mondo. Le interazioni globali odierne sono più intense rispetto al passato e possono funzionare bene solo se governate dai vincoli creati dalla condivisione di valori, comunicazione e impegno. Normalmente è più probabile che si instauri una cooperazione tra persone e Stati con interessi differenti se tutti sono legati e motivati da valori e impegni comuni. La cultura globale non c’entra con la lingua inglese o le scarpe da ginnastica griffate. La cultura globale è una questione di etica universale basata sui diritti umani, è una questione di rispetto della libertà, dell’uguaglianza e della dignità di tutti gli individui. Le interazioni odierne richiedono anche rispetto per la differenza e rispetto per il patrimonio culturale delle migliaia di gruppi culturali presenti nel mondo. Alcuni pensano che i valori di certe tradizioni culturali siano in contraddizione con i progressi raggiunti nello sviluppo e nella democrazia. Non vi sono prove oggettive per affermare che alcune culture sono inferiori o superiori ai fini del progresso umano e dell’espansione delle libertà umane. Gli Stati sviluppano identità nazionali non solo per unificare la popolazione, ma anche per manifestare un’identità differente da quella di altri. Tuttavia un’idea rigida dell’identità può provocare esagerata diffidenza verso le persone e le cose provenienti dall’estero e può provocare la volontà di impedire l’arrivo degli immigrati temendo l’infedeltà al loro Paese d’elezione e ai suoi valori o di bloccare i flussi di merci e idee culturali per il timore che le forze dell’omogeneizzazione distruggano l’arte e il patrimonio del Paese di adozione. Raramente esistono identità singole. Le identità molteplici e complementari sono una realtà in molti Paesi e le persone sentono sia di appartenere al Paese, sia di fare parte di un gruppo o più gruppi all’interno di esso. Il quarto principio è quello per cui cercare rimedio agli squilibri nel potere economico e politico aiuta a prevenire i rischi che minacciano le culture delle comunità più povere e deboli. Tale principio suggerisce che si deve rimediare alle asimmetrie nei flussi di idee e di merci in modo che non vi siano culture dominanti sulle altre in ragione del loro potere economico. Le disuguaglianze nel potere politico ed economico di Paesi, industrie e grandi imprese fanno sì che alcune culture si diffondano e altre perdano vigore. La potente industria cinematografica degli Stati Uniti, che ha accesso a risorse smisurate, è in grado di sbaragliare l’industria cinematografica messicana e altri piccoli concorrenti. Le potenti imprese di grandi dimensioni possono offrire più delle popolazioni indigene per ottenere l’uso delle terre ricche di risorse. I Paesi potenti possono superare quelli deboli nelle trattative per il riconoscimento della conoscenza tradizionale nell’ambito degli accordi delle organizzazioni internazionali. I datori di lavoro potenti e approfittatori possono sfruttare i migranti indifesi.